storiedicalcio.altervista.org

Il catenaccio – seconda parte

Seconda ed ultima parte dell’articolo. Analizziamo come le principali squadre scendevano in campo ed i risultati in generale ottenuti. Vediamo inoltre chi ha saputo cogliere al meglio l’eredità del catenaccio.

SCHIERAMENTO IN CAMPO

La Svizzera di Rappan degli anni trenta schiera quattro uomini in difesa. Dietro c’è il primo abbozzo di libero della storia. A centrocampo è rimasto il classico centromediano metodista, al quale si affiancano le due mezzali. È simile ad un 4-3-3, come vediamo nella formazione qui sotto (tratta da La piramide invertita di Wilson):

Come spiega correttamente Mario Sconcerti in Storia delle idee del calcio, l’Inter di Helenio Herrera scende in campo con un 4-2-3-1 ante litteram, e dunque molto moderno. Sarti è il portiere. C’è ovviamente il libero, Picchi, dotato di ottima tecnica e personalità, ma abbastanza radicato in difesa. Gli altri difensori sono Burgnich, Guarneri e Facchetti, fortissimo, in grado di spingere sino al fondocampo avversario e di segnare parecchio. A centrocampo, Tagnin (o Bedin) funge da mediano di rottura, quasi un difensore aggiunto. Suarez, grande talento, è il centro del gioco, detta i tempi e distribuisce palloni. Jair (poi Domenghini) e Corso giocano come esterni, molto mobili. Mario Corso era estroso in campo, a volte indisciplinato nei confronti delle rigide consegne del mister. Non andava molto d’accordo con l’allenatore. Quando Herrera lo incalzava, pare gli rispondesse con un tasi, mona dialettale ma piuttosto esplicito. Al centro, avanzato, Mazzola, dietro all’unica punta, Milani, o Peirò, o Cappellini. La grande Inter, una formazione che si manderà a memoria per anni. Più conosciuta perfino dei Presidenti della Repubblica. Ecco la squadra schierata nella finale di Coppa campioni del ’64:

RISULTATI

Negli anni trenta Rappan vince quattro campionati svizzeri, due con il Servette e due con il Grasshopper. Ma non è un torneo molto competitivo all’epoca. La stessa nazionale elvetica non è considerata fra le migliori squadre europee. Nel 1938, però, i risultati positivi non mancano. La Svizzera sconfigge in amichevole l’Inghilterra. Ai mondiali di Francia elimina al primo turno una delle favorite, la Germania. Viene sconfitta al turno successivo dai futuri vice-campioni del mondo dell’Ungheria. Ma l’impressione che lascia è notevole. Rappan guida la Svizzera anche nel corso dei mondiali casalinghi nel 1954. Elimina l’Italia nella fase iniziale e raggiunge così i quarti di finale, dove la Svizzera viene sconfitta dall’Austria. Paradossalmente per l’inventore del catenaccio, Austria – Svizzera diventa la partita con il maggior numero di reti nella storia dei mondiali, primato tuttora vigente. Finisce infatti sette a cinque.

Veniamo all’Italia. Con la Salernitana, Viani ottiene al massimo la promozione in Serie A. Molto meglio al Milan, dove vince due scudetti, nel ’57 e nel ’59. Soprattutto, sfiora il titolo europeo, sconfitto dal Real Madrid in finale solo ai supplementari, nell’edizione 1957/58. La Triestina di Rocco ottiene uno storico secondo posto nel campionato del 1948, poi due ottavi posti consecutivi. Anche con il Padova Rocco stupisce per gli ottimi risultati. Tra la fine degli anni cinquanta e l’inizio dei sessanta, raggiunge un terzo, un quinto, un sesto ed un ottavo posto in campionato, in mezzo a squadre più ricche e blasonate. L’Inter di Foni conquista due scudetti consecutivi, nel 1953 e nel 1954.

Milano a porta di mano
ti fa una domanda in tedesco
e ti risponde in siciliano.
Poi Milan e Benfica
Milano che fatica…

(Lucio Dalla, Milano, dall’album Lucio Dalla)

Negli anni sessanta Milano diventa indubbiamente la capitale mondiale del calcio. E questo avviene sotto l’egida del catenaccio.

Gianni Rivera - fonte imilanclub.it

Gianni Rivera – fonte imilanclub.it

Il Milan di Rocco è campione d’Italia nel 1962. L’anno successivo vince la Coppa dei campioni, battendo il Benfica nella finale di Wembley. È il Milan di Trapattoni, Cesare Maldini, Radice, Dino Sani, Rivera ed Altafini. Il secondo gol al Benfica è il tipico esempio di contropiede: palla recuperata da David in difesa, subito a Rivera a metà campo, che lancia Altafini verso la porta. L’attaccante italo-brasiliano farà 14 gol in quell’edizione del torneo, record sinora solo eguagliato, nonostante il numero di partite sia decisamente superiore. Nel 1968, con Rocco di nuovo in panchina, il Milan vince lo scudetto e la Coppa delle coppe. Nel 1969 è di nuovo campione d’Europa. Lo stesso anno i rossoneri vinceranno anche la Coppa intercontinentale, dopo un confronto a dir poco drammatico contro gli argentini dell’Estudiantes. Quel Milan si dispone in campo con una sorta di 4-2-4. In Coppa campioni, batte il Manchester United in semifinale, campione uscente, la squadra di Bobby Charlton e George Best, di Stiles e di Law, in una sfida storica. Schianta l’Ajax in finale per quattro a uno, partita dominata, altro che difesa ed attendismo. È anche una sorta di passaggio di consegne al calcio totale.

L’Inter di Helenio Herrera chiude al vertice il campionato del 1963. L’anno successivo perde il titolo nazionale nello spareggio contro il Bologna, ma vince il titolo europeo. La finale di Vienna la vede opposta al Real Madrid. L’Inter vince tre a uno, nettamente. Nel 1965 si aggiudica lo scudetto ed un’altra Coppa dei campioni, contro il Benfica. La finale non è una gran partita. Si gioca su di un terreno zuppo d’acqua, con l’Inter molto chiusa. L’impresa però i nerazzurri l’hanno fatta in semifinale, contro il Liverpool. Sconfitti duramente all’andata, ribaltano il risultato a San Siro vincendo tre a zero. In quegli anni, inoltre, l’Inter vince anche due Coppe intercontinentali. Nel 1966 è ancora campione d’Italia, mentre in Coppa campioni esce in semifinale contro il Real, contro il quale gioca a Madrid una partita eccessivamente rinunciataria. Nel 1967 l’epilogo. La finale di coppa vede l’Inter opposta agli scozzesi del Celtic, una squadra dotata fisicamente, molto offensiva. La squadra di Herrera va in vantaggio, ma crolla alla distanza, sovrastata dagli avversari. L’Inter perderà anche il tricolore, nell’ultima giornata, a vantaggio della Juventus. Fine dell’Inter di Herrera ed inizio della fine del catenaccio, che comincia ad evidenziare alcuni limiti.

Giacinto Facchetti - fonte clubdomenica.it

Giacinto Facchetti – fonte clubdomenica.it

La nazionale italiana vince il suo primo e unico europeo nell’edizione casalinga del 1968. L’Italia batte in semifinale l’Unione Sovietica, al termine di un incontro molto equilibrato e combattuto. La partita finisce però zero a zero e gli azzurri avanzano in finale solo grazie al lancio della monetina. I rigori non c’erano ancora. In finale l’Italia supera la Jugoslavia. Di partite ne servono però due: la prima, dominata dagli slavi, finisce uno a uno; la seconda, due a zero per l’Italia. Al di là della tattica, è una generazione di calciatori straordinaria: Albertosi, Zoff, Facchetti, Burgnich, Domenghini, De Sisti, Mazzola, Rivera, Anastasi, Riva, Boninsegna. In panchina c’è Valcareggi. Due anni dopo l’Italia sarà vice-campione del mondo in Messico, dietro ad un Brasile stellare. La semifinale con la Germania, il celebre quattro a tre, l’abbiamo in mente tutti. Bene, i tempi regolamentari sono un buon esempio di catenaccio applicato. In vantaggio nel primo tempo, l’Italia nella ripresa si chiude a riccio in difesa a parare gli assalti avversari, e cerca il contropiede. Poi, nei supplementari, salta tutto: schemi, tattica, posizioni. Ma nasce il mito. A volte può essere entusiasmante quando il disordine prende il sopravvento.

EREDITA’

Scrive Lev Tolstoy ne La sonata a Kreuzer:

È veramente sorprendente quanta forza abbia l’illusione che la bellezza coincida con il bene.

Non necessariamente per vincere a calcio è indispensabile votarsi all’attacco. Non necessariamente, poi, le squadre che fanno possesso palla o che adottano un atteggiamento offensivo, fanno bel gioco. Ed in ogni caso, più di tutto, il bel gioco non è sempre sinonimo di vittoria. Sono tutte interpretazioni eccessivamente rigide. Troppe volte nel passato, ed ancora oggi, alcune squadre sono state accusate in tono dispregiativo di vincere con il catenaccio. Va bene, e allora? Dov’è il problema?

Giovanni Trapattoni - fonte storiedicalcio.altervista.org

Giovanni Trapattoni – fonte storiedicalcio.altervista.org

I principali eredi del catenaccio sono stati gli artefici del calcio all’italiana. Era abbastanza inevitabile. Due nomi su tutti, Enzo Bearzot e Giovanni Trapattoni, per quanto l’elenco sarebbe lungo. Spesso le due tattiche sono raccontate come un’unica esperienza. Non è molto corretto. Il calcio all’italiana è stato un’evoluzione del catenaccio: il libero come centrocampista aggiunto; il centrocampo a zona; i ruoli fissi ma interpretati con duttilità; la grande tecnica di molti giocatori. Insomma, l’adattamento del vecchio modulo alla realtà in movimento, a quello che accadeva fuori dall’Italia. Il tutto condito da grandi vittorie.

Nella seconda metà degli anni ottanta, poi, si è diffuso un particolare atteggiamento tattico che ha molti punti in contatto con il catenaccio. L’Argentina di Bilardo vince i mondiali 1986 con uno schieramento 3-5-2, una squadra piuttosto arcigna, gli esterni che coprono, il libero. Nel corso dei mondiali del ’90, durante i quali il difensivismo impera e la media gol tocca un minimo storico, il 3-5-2 si è trasformato di fatto in 5-3-2. Gli esterni sono ormai dei terzini. Nell’occasione, molte squadre lo hanno adottato: il Brasile, l’Argentina ed anche la Germania campione del mondo guidata da Beckenbauer.

Ancora, vicino ai nostri giorni, è da ricordare la Grecia di Rehhagel, campione d’Europa nel 2004. La vittoria rappresenta probabilmente la più grande sorpresa nella storia delle competizioni per nazionali. Quella formazione ha compensato un livello tecnico chiaramente inferiore rispetto ad altre formazioni, con un gioco tutto difesa e contrattacco, la riscoperta del libero, la squadra tenuta compatta. Vince meritatamente quell’europeo, senza rubare alcunché e giocando nel complesso il calcio migliore della competizione, per intelligenza tattica e disciplina. Nel 2012, poi, Di Matteo prende in mano il Chelsea a metà stagione e fa sua la Champions League affidandosi quasi esclusivamente al contropiede.

Otto Rehhagel - fonte commons.wikimedia.org

Otto Rehhagel – fonte commons.wikimedia.org

Ma le migliori idee lasciate in eredità dal catenaccio credo riguardino, congiuntamente, l’interpretazione del difensivismo e la capacità di comprendere l’avversario. In breve: la necessità di chiudersi, coprire gli spazi e tagliare i rifornimenti, quando si ha di fronte una squadra che, in quel momento, è superiore o ne ha di più. Due esempi: l’Italia di Lippi nella finale mondiale del 2006, dal secondo tempo; l’Inter di Mourinho contro il Barcellona, semifinale di ritorno della Coppa campioni 2010. In entrambe le occasioni gli allenatori comprendono che gli avversari, in una partita a viso aperto, avranno il sopravvento, e pertanto adattano la squadra all’attesa. La arretrano, e con successo. Ma nessuna delle due squadre ha attuato nel torneo in oggetto un difensivismo tout court. Nella gara di andata della semifinale, l’Inter ha vinto in maniera piuttosto netta, rifilando tre gol al Barcellona. L’Italia ha terminato la vittoriosa semifinale mondiale contro la Germania con quattro attaccanti di ruolo in campo. Ma per vincere hanno dovuto, in un preciso momento e più di tutto, difendersi. La lezione del catenaccio.

Share Button
Un commento
  1. Pingback: Calcio Parziale | Il catenaccio – prima parte

Lascia un Commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>